Visite guidate gratuite il 2 ottobre 2025, dalle ore 16, negli edifici dell’università milanese per l’inaugurazione della dodicesima edizione di BAG – Bocconi Art Gallery, con un percorso espositivo che intreccia 138 opere di 75 artisti.
Il sole 24 ore inserisce un’opera di Doriam Battaglia nell’articolo pubblicato il 29 settembre su il Sole 24 Ore:
“L’arte contemporanea, anche dove non la si comprenda appieno, è arricchimento e apertura della mente, innesca domande e suggestioni che trapelano dai racconti visivi in cui essa si esprime, che siano tele, installazioni, sculture o fotografia.
Per questo Bocconi ha scelto di investire con costanza nel progetto BAG – Bocconi Art Gallery, coinvolgendo sempre nuovi artisti di livello internazionale e intrecciando collaborazioni con importanti gallerie italiane e straniere.”
All’interno del BAG, oggi sono state installate due mie opere nel Campus metropolitano di Bocconi SDA nella nuova sede di Via Roberto Sarfatti 10, spazi comuni al piano -1. Edificio progettato dalla studio SANAA (Arch. Kazuyo Sejima e Arch. Ryue Nishzawa), insediamento urbano di alta sostenibilità ambientale.
Opere:
W200521 abc “Energia del vuoto” trittico. Smalti sintetici all’acqua su tela. Dim. 216×384 (96+192+96 cm.) Anno 2020.
W27793 ac “Gravitazione quantistica” dittico. Smalti sintetici all’acqua su tela. Dim. 216×192 (96+96 cm.) Anno 2020 – 2025
“Un paysage quelconque est un état de l’âme”, un qualsiasi paesaggio è uno stato d’animo.
Journal intimedel filosofo e poeta Henri Frédéric Amiel
Le opere di questa mostra sono paesaggi pre-formali dell’Universo risalenti a13,8 miliardi di anni fa quando l’Universo si è formato.
“Paesaggi da guardare con un’attitudine mentale ed etica particolare, da leggersi in chiave metaforica. Oltre ciò che mostrano, oltre ciò che sono, stati d’animo, finestre su un mondo sconosciuto e inconoscibile. Opere che provocando, e non di rado esasperando il colore, quasi a voler riprodurre attraverso la studiata casualità delle loro dinamiche compositive l’evento di una nascita e l’affermarsi ed evolversi della stessa esistenza”. (V. Guarracino)
Queste opere vorrebbero suscitare uno stato d’animo, un clima psichico nell’osservatore che lo riconduca all’unita, a quell’Uno che tutto comprende e nulla esclude., a quella fratellanza cosmica di cui cantava già San Francesco.
“Il Vuoto é forma e la forma é vuoto” recita il Sutra del Cuore, un vuoto che non è il Nulla nichilista, ma il pieno di ogni possibile essenza.
Veniamo dalle stelle e alle stelle torneremo. Tutto è unità e l’Uno è tutto ciò che esiste. Nel mio lavoro parto dal concetto di “Consustanzialità” ove materia, energia, forma, spirito, Vita e coscienza coesistono senza alcuna possibilità di separazione. Ma nel mondo attuale vediamo tante separazioni, conflitti, guerre e competizioni cruente. L’umanità è scivolata sempre più da una visione bio-centrica, quella della Grecia ad esempio, ove ciò che conta è la Vita, ad una antropocentrica ove conta solo l’uomo e i suoi interessi immediati. Da quando l’antropocentrismo è divenuto l’atteggiamento prevalente, promosso soprattutto dalla cultura giudaico-cristiana, che pone l’essere umano al centro come dominatore del creato, si è fatta strada una sempre più marcata differenziazione tra l’umano e ciò che umano non è. Da una visione collettiva ad una sempre più individualista, da un atteggiamento collaborativo ad uno fortemente egoistico. Non possiamo vivere da soli, abbiamo tutti bisogno degli altri, di ogni essere, siamo tutti connessi. Il comportamento antropocentrico ci sta portando a un punto di non ritorno. Cambiamenti climatici, inquinamento di terra, acqua e aria, pandemie, guerre che distruggono l’ambiente, flussi migratori sempre più inarrestabili per fuggire dalla guerra e dalla siccità che rendono inospitali larghe zone del pianeta, iniqua distribuzione delle risorse materiali e culturali.
In questa situazione complessa anche l’Arte deve fare la sua parte risvegliando le coscienze assopite da una cultura dominante miope, di corto respiro, riportando al centro del proprio agire la tutela della Vita in tutte le sue molteplici forme. E’ un atteggiamento irresponsabile pensare di dominare la Natura invece di armonizzarsi ad essa, rispettandola.
L’uomo si illude di trovare la libertà e la felicità e nel possedere egoistico, ma la felicità si può trovare solo nella condivisione e nella partecipazione al bene comune. Compito della scienza è ampliare la conoscenza, missione dell’arte è accrescere la coscienza collettiva. Una scienza senza etica, asservita a potere dominante, è estremamente pericolosa.
Noi esseri umani siamo destinati ad avere coscienza del mondo e di noi stessi, e per quello che ne sappiamo, rappresentiamo l’apice di essa in questo Universo.
Con la nostra estinzione anche la coscienza dell’Universo si azzera. In un futuro lontano anche l’Universo si esaurirà, mai il tempo è ciclico e altri infiniti universi sorgeranno dopo il nostro, come probabilmente è già accaduto prima del nostro.
Abbiamo questa grande responsabilità; mantenerci in vita per testimoniare l’esistenza dell’Essere. Per continuare a esistere come specie umana dobbiamo conservare in buona salute l’intera biosfera. Per fare ciò dobbiamo mettere in atto comportamenti responsabili, riducendo i consumi e ridistribuendo in modo equo le risorse rinnovabili della Terra. L’Arte deve sostenerci in questo proposito.
Testo di Vincenzo Guarracino, letterato e poeta:
“Rerum natura, hoc est vita, narratur“
(«Descrivo la natura, cioè la vita»)
PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, praef.13
C’è nelmonumentaleJournal intimedel filosofo e poeta Henri Frédéric Amiel una frase, dedicata al valore del paesaggio, che sembra condensare la poetica che racchiude e tiene insieme il senso della panoplia di immagini che scorre come in un film sotto i nostri occhi: “Un paysage quelconque est un état de l’âme”, un qualsiasi paesaggio è uno stato d’animo.
Come dire che ciò che si vede, più che di una cifra oggettiva sua propria, ossia di sue specifiche caratteristiche e qualità, è dotato di maggiore o minore gradevolezza a seconda dello stato d’animo, del “clima psichico” per così dire, con cui chi lo osserva lo percepisce e, per quanto riguarda l’artista, lo rappresenta.
In altri termini, un paesaggio,ogni paesaggio, è inquadrabile all’interno delle coordinate di un momento specifico, che possono essere tormentate e complesse o serene e gratificanti, che sono immagini di uno stato d’animo:
teatro ed ostensione, quasi liturgica, soltanto di se stessi e paesaggi di un’attitudine mentale e morale tutta particolare, da leggersi in chiave metaforica. Oltre ciò che mostrano, oltre ciò che sono, Stati d’animo, Finestre su un mondo sconosciuto e inconoscibile.
“Paesaggi” che vivono del loro stesso respiro, della natura delle nubi e delle brume, delle esalazioni della terra e del cielo, di albe e tramonti trasfigurati, in momenti particolari, zenitali dell’animo: ambiscono, come “finestre”, di essere varchi da cui il groviglio del segno si protende alla furiosa ricerca della luce verso immagini impensate, verso epifanie di senso nell’occhio incantato dello spettatore, “paesaggi” che si aprono come reperti emozionali generati da un’improvvisa colatura di colore, dalla folgore di un segno che attraversa la campitura del quadro, squarciando il tutto dell’opera, per dipanarsi in contesti di essenziale tensione della forma.
Certo, resistono, come si diceva, il colore e il gesto: meglio, il colore, un colore-spazio-segno, che guida la mano imprimendo all’insieme velocità a tratti vorticose, tanto da sfidare le leggi stesse della stabilità e della coerenza del supporto (tela, carta, legno), per reclamare con la sua lievitante e debordante sostanza spazi contigui e successivi avvitandosi e allungandosi in strie, girandole e spirali. Forme cromatiche in espansione, anfratti e arcobaleni di un pensiero senza memoria che si svolge e avvolge prima di ritornare su stesso per impennarsi, meraviglioso e meravigliato, inseguendo un progetto e un sogno che si ripete all’infinito e che i titoli allusivamente si incaricano di lasciar intuire e rilanciare.
Come definirle altrimenti se non storie di segni, “capricci” di linee e sintagmi cromatici governati, sotto il segno del comune denominatore della “Meraviglia”, da una furiosa ricerca della luce, dall’ansia della salvezza di un varco, imprigionati e costretti come sono nei muri spessi del labirinto di un’opprimente condizione esistenziale, lasciando solo a tratti affiorare lacerti e fantasmi di presenze, oggettuali o umane?
Storie e fonemi di pittura, dunque, che parlano soltanto di se stesse, perfettamente autoreferenziali e incuranti per lo più di qualsivoglia obbligo realistico e mimetico, come dimostra anche l’estrema parsimonia di indicazioni.
Microcosmi strutturali di un’assoluta necessità di espressione, vivono, nel tempo della loro scrittura, come gesti e alfabeti interferiti da continue distrazioni e insorgenze emozionali, che impongono al segno sulla minima scena del quadro continue contrazioni o dilatazioni, in un movimento di diastole-sistole del pensiero (viene in mente un aforisma di Paul Valéry, “Pensare è perdere il filo”), provocando e non di rado esasperando il colore, quasi a voler riprodurre attraverso la studiata casualità delle loro dinamiche compositive l’evento di una nascita e l’affermarsi ed evolversi della stessa esistenza.
Ecco, a ben vedere, è proprio questo l’elemento dominante e unificante di queste opere, pur nel necessario cambiamento di situazioni e intenzioni, l’attenzione cioè al processo dell’apparire ed affermarsi dell'”immagine”, al lucreziano clinamen del suo nascere e accamparsi sulla superficie del supporto (tela, carta, legno), facendo sì che un’idea attraverso la tecnica diventi manifestazione sensibile di un’essenziale verità e cifra di una accettazione delle intrinseche leggi della materia.
Saper scorgere e ritrovare i “Mirabilia” anche nel mondo moderno. Questo, credo, l’arduo ma importante compito dell’arte contemporanea. Plinio il Vecchio, all’interno della Naturalis Historia, si sofferma a lungo sul concetto di “Mirabilia”: oggetti spesso insoliti, di piccole dimensioni, capaci di contenere in sé bellezza, stupore e, al tempo stesso, mistero e disorientamento. Per l’autore latino, originario di Como, il mondo naturale è il luogo prediletto in cui i “Mirabilia” si celano. Esso costituisce uno dei primi specchi in cui l’essere umano può riflettersi, attraverso una costante ricerca di sé stesso e dell’altro, riscoprendosi nella sua unicità, nei suoi particolari e, anche, nelle sue stranezze. Spesso spinti da una necessità interiore, gli artisti sanno che la meraviglia si nasconde nelle profondità dell’ignoto. Ognuno guarda con occhi diversi la realtà circostante e la interpreta secondo ciò che prova dentro di sé. La volontà di soffermarsi e arrivare al fondo delle cose è un atteggiamento che oggi viene spesso trascurato. La velocità della vita moderna porta a vivere frettolosamente e superficialmente ciò che ci circonda. Tutto appare uguale agli occhi di chi guarda senza vedere davvero. In questa mostra, invece, si avrà la riprova di come la meraviglia si celi nelle piccole cose che restano nascoste ai rapidi sguardi: un fiore, un’alga, un pesce, una nuvola, un gesto, un colore, una sfumatura. Plinio sapeva tutto questo e l’arte può ricordarlo anche a noi.
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PER I PAESAGGI DI MIRABILIA
“Rerum natura, hoc est vita, narratur“
(«Descrivo la natura, cioè la vita»)
PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, praef.13
C’è nelmonumentaleJournal intime del filosofo e poeta Henri Frédéric Amiel una frase, dedicata al valore del paesaggio, che sembra condensare la poetica che racchiude e tiene insieme il senso della panoplia di immagini che scorre come in un film sotto i nostri occhi: “Un paysage quelconque est un état de l’âme”, un qualsiasi paesaggio è uno stato d’animo.
Come dire che ciò che si vede, più che di una cifra oggettiva sua propria, ossia di sue specifiche caratteristiche e qualità, è dotato di maggiore o minore gradevolezza a seconda dello stato d’animo, del “clima psichico” per così dire, con cui chi lo osserva lo percepisce e, per quanto riguarda l’artista, lo rappresenta.
In altri termini, un paesaggio, ogni paesaggio, è inquadrabile all’interno delle coordinate di un momento specifico, che possono essere tormentate e complesse o serene e gratificanti, che sono immagini di uno stato d’animo:
teatro ed ostensione, quasi liturgica, soltanto di se stessi e paesaggi di un’attitudine mentale e morale tutta particolare, da leggersi in chiave metaforica. Oltre ciò che mostrano, oltre ciò che sono, Stati d’animo, Finestre su un mondo sconosciuto e inconoscibile.
“Paesaggi” che vivono del loro stesso respiro, della natura delle nubi e delle brume, delle esalazioni della terra e del cielo, di albe e tramonti trasfigurati, in momenti particolari, zenitali dell’animo: ambiscono, come “finestre”, di essere varchi da cui il groviglio del segno si protende alla furiosa ricerca della luce verso immagini impensate, verso epifanie di senso nell’occhio incantato dello spettatore, “paesaggi” che si aprono come reperti emozionali generati da un’improvvisa colatura di colore, dalla folgore di un segno che attraversa la campitura del quadro, squarciando il tutto dell’opera, per dipanarsi in contesti di essenziale tensione della forma.
Certo, resistono, come si diceva, il colore e il gesto: meglio, il colore, un colore-spazio-segno, che guida la mano imprimendo all’insieme velocità a tratti vorticose, tanto da sfidare le leggi stesse della stabilità e della coerenza del supporto (tela, carta, legno), per reclamare con la sua lievitante e debordante sostanza spazi contigui e successivi avvitandosi e allungandosi in strie, girandole e spirali. Forme cromatiche in espansione, anfratti e arcobaleni di un pensiero senza memoria che si svolge e avvolge prima di ritornare su stesso per impennarsi, meraviglioso e meravigliato, inseguendo un progetto e un sogno che si ripete all’infinito e che i titoli allusivamente si incaricano di lasciar intuire e rilanciare.
Come definirle altrimenti se non storie di segni, “capricci” di linee e sintagmi cromatici governati, sotto il segno del comune denominatore della “Meraviglia”, da una furiosa ricerca della luce, dall’ansia della salvezza di un varco, imprigionati e costretti come sono nei muri spessi del labirinto di un’opprimente condizione esistenziale, lasciando solo a tratti affiorare lacerti e fantasmi di presenze, oggettuali o umane?
Storie e fonemi di pittura, dunque, che parlano soltanto di se stesse, perfettamente autoreferenziali e incuranti per lo più di qualsivoglia obbligo realistico e mimetico, come dimostra anche l’estrema parsimonia di indicazioni.
Microcosmi strutturali di un’assoluta necessità di espressione, vivono, nel tempo della loro scrittura, come gesti e alfabeti interferiti da continue distrazioni e insorgenze emozionali, che impongono al segno sulla minima scena del quadro continue contrazioni o dilatazioni, in un movimento di diastole-sistole del pensiero (viene in mente un aforisma di Paul Valéry, “Pensare è perdere il filo”), provocando e non di rado esasperando il colore, quasi a voler riprodurre attraverso la studiata casualità delle loro dinamiche compositive l’evento di una nascita e l’affermarsi ed evolversi della stessa esistenza.
Ecco, a ben vedere, è proprio questo l’elemento dominante e unificante di queste opere, pur nel necessario cambiamento di situazioni e intenzioni, l’attenzione cioè al processo dell’apparire ed affermarsi dell'”immagine”, al lucreziano clinamen del suo nascere e accamparsi sulla superficie del supporto (tela, carta, legno), facendo sì che un’idea attraverso la tecnica diventi manifestazione sensibile di un’essenziale verità e cifra di una accettazione delle intrinseche leggi della materia.